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Gli smartphone non ci renderebbero asociali, ma al contrario, ipersociali. Uno studio della McGill University ribalta il concetto di dipendenza da smartphone
Abbiamo ormai tutti in mente la scena in cui, seduti intorno a un tavolo davanti a una pizza, a un certo punto uno dei commensali tira fuori lo smartphone e tutti gli altri lo imitano, così che per i successivi tre/quattro minuti ci si ritrova “isolati” dall’ambiente a controllare le notifiche, rispondere a un messaggio e sorridere privatamente davanti all’ultimo tag.
Questa scena a cui assistiamo o di cui siamo protagonisti tutti i giorni sarebbe un esempio di quello che molti considerano un comportamento asociale provocato dalla dipendenza da smartphone. Il fenomeno è stato ripreso – spesso con allarmismo – anche dai media. Qualche mese fa il co-founder di Facebook metteva addirittura in guardia rispetto all’uso dei social che “sfruttano le vulnerabilità psicologiche degli utenti”.
Ma di che vulnerabilità stiamo parlando? Non è che stiamo analizzando il problema da una prospettiva errata? Una domanda che ha portato i ricercatori a condurre questo studio.
In particolare Samuel Veissière, antropologo cognitivo che studia l’evoluzione della cognizione e della cultura, spiega che
il desiderio di guardare e monitorare gli altri, ma anche di essere visto e monitorato dagli altri, scorre profondamente nel nostro passato evolutivo [altrimenti non avremmo mai inventato i reality come il Grande Fratello, ndr].
Gli esseri umani, specie sociale, richiedono un input costante da parte degli altri. Questo consente di ottenere una guida al comportamento culturalmente appropriato e ci aiuta a trovare significati, obiettivi e senso di identità.
Abbiamo il bisogno di connetterci agli altri
Nello studio pubblicato su Frontiers in Psychology, Samuel Veissière e Moriah Stendel, ricercatori del Dipartimento di Psichiatria della McGill, hanno quindi esaminato la letteratura sull’uso disfunzionale della tecnologia applicando alla loro osservazione una lente che considerasse la nostra storia evolutiva.
Quello che emerge è che le funzioni dello smartphone che ci coinvolgono di più attingono al nostro naturale bisogno e desiderio di connetterci con altre persone.
Le relazioni sane possono diventare una dipendenza patologica
Mentre gli smartphone sfruttano un normale e sano bisogno di socialità, la professoressa Veissière concorda sul fatto che il ritmo e la scala dell’iperconnettività spingono il sistema di ricompensa del cervello a una overdose che può portare a dipendenze patologiche.
Negli ambieti post-industriali in cui gli alimenti sono abbondanti e prontamente disponibili, le nostre voglie di grassi e zuccheri scolpiti da pressioni evolutive lontane possono facilmente diventare insaziabili e portare a obesità, diabete e malattie cardiache. Allo stesso modo, i bisogni pro-sociali e le ricompense [date dall’uso dello smartphone come mezzo per connettersi e soddisfare questi bisogni] possono essere dirottate e produrre un teatro maniacale di monitoraggio iper-sociale
Andando oltre al clamore e al panico suscitato dall’argomento, gli studiosi offrono indicazioni e dimostrano che il nostro desiderio di interazione è sano. L’equilibrio si trova se si prendono delle precauzioni abbastanza semplici: la motivazione a connettersi può restare sotto il nostro controllo, in una condizione di benessere.
Come evitare la overdose da social
I ricercatori suggeriscono di disattivare le notifiche push e programmare dei tempi precisi da dedicare al controllo del telefono. Questo consente di mantenere il controllo sulla dipendenza da smartphone. Anche l’adozione di politiche specifiche sul posto di lavoro, che ad esempio vietino le e-mail serali e nel di fine settimana, può rivelarsi molto utile.
Ecco allora il cambio di prospettiva: anziché regolamentare le società tecnologiche o l’uso di questi dispositivi, possiamo parlare del modo appropriato di utilizzare gli smartphone.
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