Indice
Qual è la chiave per una vita felice?
Quando rivolgiamo questa domanda ad una persona quasi sempre la risposta è indirizzata verso un contenuto specifico che si sente il bisogno di avere. Siamo tutti motivati da qualcosa che desideriamo, e desideriamo avere le cose più diverse: chi la fama, chi un traguardo lavorativo, chi i soldi, chi un oggetto particolare, che sia un’auto, un vestito, un giocattolo. Qualsiasi sia il contenuto, riuscire ad ottenerlo ci motiva, perché sentiamo che averlo ci farà felici.
Uno studio condotto dall’Università di Harvard suggerisce però che a fare felice una persona, e a contribuire ad un invecchiamento sano, non sono i soldi o il successo, ma la forza e la qualità delle relazioni interpersonali.
Robert Waldinger, psichiatra al Massachusetts General Hospital e professore alla Harvard Medical School, è il direttore dell’Harvard Study of Adult Development. In realtà Waldinger è il direttore attuale della ricerca, per l’esattezza il quarto, perché lo studio in questione è iniziato nel 1938, e ha esaminato – e tuttora esamina – le vite di oltre settecento americani.
Un obiettivo ambizioso
Questa enorme ricerca è nata con lo scopo di raccogliere più dati possibili sugli aspetti principali della vita delle persone, per individuare delle correlazioni tra i dati raccolti. Gli oltre settecento soggetti che hanno inizialmente partecipato a questo esperimento, tutti di sesso maschile, provenivano da due popolazioni:
- studenti di Harvard, individui della classe benestante americana
- uomini dei quartieri più poveri di Boston, senza precedenti penali.
I dati di ciascun soggetto sperimentale sono stati raccolti attraverso interviste annuali o biennali, a volte anche con colloqui e filmati della quotidianità della loro vita. Le domande indagavano ogni aspetto della vita di una persona: c’erano domande sulla vita matrimoniale, sul censimento della famiglia, sullo stato di salute psicofisica, sui desideri e le aspirazioni, sul benessere economico, sui beni posseduti, sul numero di amici e di persone intime, sul lavoro, sugli interessi personali, sul tempo libero, e solo negli ultimi anni questi dati sono stati affiancati con quelli di neuroimmagine, dei prelievi del sangue e delle interviste alle mogli e ai figli dei partecipanti.
Analizzare settecento vite significa osservare settecento scenari differenti, ciascuno una combinazione unica e irripetibile di eventi. Alcuni di questi uomini hanno scalato il successo, altri hanno divorziato, alcuni hanno sviluppato malattie mentali, altri sono diventati medici o businessmen, alcuni sono diventati alcolisti, qualcun altro è diventato presidente degli Stati Uniti.
Un risultato sorprendente
In oltre 75 anni, i ricercatori hanno studiato gli effetti della Seconda Guerra Mondiale, l’abuso di sostanze, i traumi infantili, l’educazione e altri fattori.
Sorprendentemente, il fattore che più di tutti correlava positivamente (non c’è quindi causalità, ma correlazione) con una buona qualità della vita, con un invecchiamento sano e con il sentirsi felici era la forza e la qualità delle relazioni interpersonali – che si misura sia all’interno sia all’esterno delle mura domestiche.
Come Waldinger ha detto nella TED conference in cui ha parlato di questo studio
Alcune coppie di ottuagenari litigano giorno per giorno. Ma finché sentiranno di poter veramente contare l’uno sull’altro, queste discussioni non avranno peso sui loro ricordi. Le persone che hanno cercato di sostituire i vecchi colleghi di lavoro con nuovi amici dopo essere andati in pensione erano più felici e in salute di quelle che hanno lasciato il lavoro e dato meno importanza al mantenimento di reti relazionali forti.
Tutti questi dati, se generalizzati, portano ad una precisa conclusione: circondarci di persone che ci amano e verso cui proviamo affetto ha un impatto positivo sulla qualità generale della nostra vita.
Relazioni e salute fisica e mentale
Questo dato, in ottica biopsicosociale – un’ottica che vale molto di più dell’uso diagnostico che attualmente le viene riservato – ha un valore molto forte.
Considerare un individuo come un prodotto e un attore biopsicosociale significa cogliere la dimensione sistemica che lega ogni aspetto della nostra esistenza: quello biologico, quello psicologico (cognitivo e affettivo) e quello sociale e relazionale. Non si può pensare che una variazione in uno di questi aspetti non abbia una ripercussione sugli altri. Filtrare il dato di questo esperimento attraverso la teoria biopsicosociale consente una conclusione tanto ovvia quanto audace: la qualità, sia essa positiva o negativa, delle relazioni interpersonali di un individuo esercita un effetto sulla qualità della sua salute fisica (in questo caso, un invecchiamento sano) e psicologica (in questo caso, la felicità).
Leggi gli studi originali
- What’s Love Got To Do With It?
- Neural Activity, Neural Connectivity, and the Processing of Emotionally-Valenced Information in Older Adults
Articolo a cura di Mattia Zanzi
Sull’autore
Mattia Zanzi studia Neuroscienze all’Università degli Studi di Trento. Ha scelto di studiare Neuroscienze perché è l’ambito di ricerca che rappresenta il tentativo del cervello di conoscere se stesso. Il suo obiettivo è quello di diventare ricercatore. Attualmente lavora a due progetti di ricerca: uno studia le oscillazioni neurali nei compiti attentivi attraverso la Magnetoencefalografia, l’altro indaga i processi cognitivi negli animali. I settori di ricerca a cui è maggiormente interessato sono il linguaggio, la memoria di lavoro e le neuroimmagini.